Sono
lieto di presentare agli amici questa breve pubblicazione di Salvatore
Mongiardo, originale omaggio alla nostra concittadina Mariantonia Samà. L’autore
ci propone la cara figura della Monachella di San Bruno nel travagliato
scenario storico di Sant’Andrea Jonio del secolo scorso.
Recentemente
è stato scoperto nell’Archivio Storico della Certosa di Serra San Bruno un
manoscritto di quindici pagine che la riguarda, Guarigione della
giovinetta di Sant’Andrea, una cronaca preziosa e dettagliata, collegata ai
riti di liberazione degli spirdati o ossessi in Calabria.
Questa
scoperta suona come un invito a riconsiderare la straordinaria vicenda della
Monachella, cosi umile e nascosta, con nuovi approfondimenti. Allora la sua
figura potrà apparire in tutta la sua ricchezza di significati per il mondo di
oggi alla ricerca di senso e di speranza.
Il Parroco don Francesco Palaia
Cenni storici
Figlia
unica, Mariantonia Samà nasce il 2 marzo 1875 pochi mesi dopo la morte del
padre Bruno in un angusto tugurio, dove il sole non penetra mai e che si apre
su una stradina larga un metro.
La madre è povera, come la maggior parte della popolazione calabrese negli anni di miseria che seguirono all’unificazione dell’Italia nel 1861. Mariantonia cresce attaccata alla madre che deve darsi da fare per procurare il cibo. Madre e figlia non sanno leggere né scrivere, parlano solo la lingua andreolese, aggettivo, questo, che indica pure la popolazione di Sant’Andrea Jonio, suggestivo paese in collina, affacciato sul mare. Esse vanno scalze d’estate e d’inverno, in campagna e in montagna, per il paese e dentro la chiesa, come faceva la stragrande maggioranza degli abitanti. Anche il vestire era scarso negli inverni, così rigidi - a fine del Milleottocento - che i lupi arrivavano alle prime case del paese cercando di sfamarsi. Una mattina Mariantonia, all’età di circa 11 anni, segue la madre e altri parenti fino al fiume Saluro, dove vanno a fare il bucato vicino al mulino ad acqua. Al ritorno verso casa, Mariantonia ha sete e si china a bere, come si faceva abitualmente, in una pozza d’acqua in località Briga. Arrivata a casa, rimane contratta e immobile per quasi un mese. Poi dice stranezze, si contorce, proferisce bestemmie e non prende cibo se non dopo la mezzanotte. Per il popolo non ci sono dubbi: ha preso gli spiriti bevendo alla pozza, è una indemoniata. Suppliche, preghiere, aspersioni non aiutano a guarire la poverina e così, dopo circa sei anni di cui l’ultima parte passata da Mariantonia a letto, interviene la baronessa Enrichetta Scoppa, residente a Sant’Andrea Jonio, la quale organizza una spedizione alla Certosa di Serra San Bruno per far esorcizzare la ragazza. Da quando, agli inizi del Millecinquecento, erano state ritrovate le ossa di San Bruno, in Calabria si era diffuso il suo culto come taumaturgo e liberatore degli indemoniati, chiamati anche ossessi o spiritati. Gli esorcismi avvenivano pubblicamente con lunghi riti collettivi che si svolgevano il lunedì e il martedì dopo Pentecoste nel lago in mezzo al quale si trova la statua di San Bruno penitente, poco lontano dalla Certosa.
Recentemente è stata ritrovata nell’archivio della Certosa di Serra, nel fascicolo N. XXVI, una cronaca manoscritta di 15 pagine, datata 1904. L’anonimo cronista scrive che nel mese di giugno, verso l’anno 1894, essendo priore della Certosa don Pio Assandro, Mariantonia viene portata per otto ore da Sant’Andrea Jonio a Serra attraverso il viottolo di montagna. Ci sono con lei la madre e quattro uomini che reggono le stanghe di una cassa dentro la quale essi avevano posto a giacere Mariantonia a causa delle sue continue convulsioni. Abbiamo anche i nomi dei quattro portatori: Antonio Mannello - la tradizione orale parla di Vincenzo Mannello -, Vincenzo e Giuseppe Lombardo e Antonio Frustaci.
La madre è povera, come la maggior parte della popolazione calabrese negli anni di miseria che seguirono all’unificazione dell’Italia nel 1861. Mariantonia cresce attaccata alla madre che deve darsi da fare per procurare il cibo. Madre e figlia non sanno leggere né scrivere, parlano solo la lingua andreolese, aggettivo, questo, che indica pure la popolazione di Sant’Andrea Jonio, suggestivo paese in collina, affacciato sul mare. Esse vanno scalze d’estate e d’inverno, in campagna e in montagna, per il paese e dentro la chiesa, come faceva la stragrande maggioranza degli abitanti. Anche il vestire era scarso negli inverni, così rigidi - a fine del Milleottocento - che i lupi arrivavano alle prime case del paese cercando di sfamarsi. Una mattina Mariantonia, all’età di circa 11 anni, segue la madre e altri parenti fino al fiume Saluro, dove vanno a fare il bucato vicino al mulino ad acqua. Al ritorno verso casa, Mariantonia ha sete e si china a bere, come si faceva abitualmente, in una pozza d’acqua in località Briga. Arrivata a casa, rimane contratta e immobile per quasi un mese. Poi dice stranezze, si contorce, proferisce bestemmie e non prende cibo se non dopo la mezzanotte. Per il popolo non ci sono dubbi: ha preso gli spiriti bevendo alla pozza, è una indemoniata. Suppliche, preghiere, aspersioni non aiutano a guarire la poverina e così, dopo circa sei anni di cui l’ultima parte passata da Mariantonia a letto, interviene la baronessa Enrichetta Scoppa, residente a Sant’Andrea Jonio, la quale organizza una spedizione alla Certosa di Serra San Bruno per far esorcizzare la ragazza. Da quando, agli inizi del Millecinquecento, erano state ritrovate le ossa di San Bruno, in Calabria si era diffuso il suo culto come taumaturgo e liberatore degli indemoniati, chiamati anche ossessi o spiritati. Gli esorcismi avvenivano pubblicamente con lunghi riti collettivi che si svolgevano il lunedì e il martedì dopo Pentecoste nel lago in mezzo al quale si trova la statua di San Bruno penitente, poco lontano dalla Certosa.
Recentemente è stata ritrovata nell’archivio della Certosa di Serra, nel fascicolo N. XXVI, una cronaca manoscritta di 15 pagine, datata 1904. L’anonimo cronista scrive che nel mese di giugno, verso l’anno 1894, essendo priore della Certosa don Pio Assandro, Mariantonia viene portata per otto ore da Sant’Andrea Jonio a Serra attraverso il viottolo di montagna. Ci sono con lei la madre e quattro uomini che reggono le stanghe di una cassa dentro la quale essi avevano posto a giacere Mariantonia a causa delle sue continue convulsioni. Abbiamo anche i nomi dei quattro portatori: Antonio Mannello - la tradizione orale parla di Vincenzo Mannello -, Vincenzo e Giuseppe Lombardo e Antonio Frustaci.
Durante
il tragitto a volte veniva aperta la cassa per chiedere a Mariantonia se aveva
bisogno di qualcosa, ma lei non voleva nulla e diventava più agitata
avvicinandosi alla meta. La comitiva che trasportava la cassa con l’inferma giunse
a Serra prima di mezzogiorno: attraversando la strada, molta gente intenerita
da quello spettacolo seguì l’ammalata alla Certosa. Lì si fermano davanti al portone
e iniziano i riti di esorcismo in latino, praticati dall’arciprete di Amaroni
che era in visita ai certosini. La folla di serresi si unisce in preghiera, ma non
succede nulla. Nel frattempo era rientrato il priore della Certosa, che si
trovava fuori all’arrivo di Mariantonia, e prega assieme ad alcuni monaci per
cinque ore, ma senza alcun risultato. Alla fine egli ordina di andare a prendere
il busto reliquario in argento, venerato sopra l’altare maggiore della cappella
conventuale. Quel busto contiene le reliquie di San Bruno o Brunone di Colonia.
Si tratta del fondatore dell’ordine dei certosini morto a Serra, in Calabria,
dove si era ritirato e aveva eretto la seconda certosa dopo la prima eretta a
Chartreuse in Francia. Il busto viene posto davanti alla portineria, su un
banco di pietra sito tra l’abbeveratoio e la torre del conte Ruggero. A quel
punto succede il miracolo: Mariantonia vede San Bruno sorridente, nella sua forma
naturale ma in argento, si leva da sola, abbraccia la statua e grida: San
Bruno mi ha fatto la grazia! E si ritrova guarita. Grande esultanza; la cassa
nella quale Mariantonia era stata portata e i suoi vestiti vengono
bruciati accanto al muro della Certosa. Mariantonia ritorna a
Sant’Andrea Jonio per la strada carrozzabile di Soverato, come si usava
nei casi di liberazione dal demonio: significava abbandonare la
strada vecchia e intraprenderne
una nuova. Ma la storia di Mariantonia è solo agli inizi. In paese
la vita è durissima e Mariantonia ha una salute fragile. Dopo qualche
tempo, forse colpita da artrosi, si mette a letto, coricata sulla
schiena, con le gambe rattrappite e le ginocchia levate in alto come una
montagnola. Totalmente immobile, se non per l’uso delle mani per
sgranare il rosario e mangiare qualcosa con le dita, rimane su quel
letto per sessant’anni, fino alla morte avvenuta nel 1953. Proviamo
a stenderci su un letto, mettiamoci con le gambe rattrappite e le
ginocchia in alto e proviamo a pensare che rimarremo in quella posizione
per sessanta anni: la disperazione più nera ci stringerebbe il cuore.
Non fu così per Mariantonia che, all’età di 34 anni, perse anche la
madre Marianna. Tuttavia Mariantonia non rimase mai sola. Il popolo
andreolese andò in suo aiuto e ci fu sempre una donna pronta ad
accudirla giorno e notte. Si aggiungano le visite giornaliere di uomini,
donne e bambini, accompagnate dal dono di pane fresco, polpette, cibi
leggeri, frutta, ortaggi, ricotte, olio, che si confacevano alla
immobilità di Mariantonia, ai suoi dolori e ai forti disturbi intestinali.
davanti al lettuccio il crocifisso |
Il bel Gesù |
Ogni mattina riceveva la comunione e tre volte al giorno, mattina, mezzogiorno e sera, c’era nella sua casetta la recita del rosario in latino insieme con le visitatrici.
Il
numero di persone che ricorrevano a lei per ottenere grazie è impressionante: Che
fine ha fatto mio figlio che è in guerra e non scrive più? E’ opportuno
o no emigrare in America? Mia figlia si vuole fidanzare con… E’
bene? Mia sorella è malata grave, guarirà? A tutti quelli che le chiedevano
tali cose lei infondeva coraggio, dava speranza e spesso faceva loro ottenere
la grazia domandata parlando con la sua voce flebile e dolce. Le Suore
Riparatrici del Sacro Cuore, alle quali la baronessa Scoppa aveva lasciato il
suo palazzo di Sant’Andrea Jonio, la elessero loro consorella con voti privati;
da allora la sua testa fu coperta con il velo nero della congregazione e
Mariantonia fu chiamata la Monachella di San Bruno. Le Suore Riparatrici
provvedevano regolarmente a lavarla e a pettinarla. Lei spirò nella mattinata
del 27 maggio 1953, all’età di 78 anni, mentre alcune donne stavano al suo capezzale
recitando le litanie della Madonna.
Non aveva nessuna piaga di decubito, la sua pelle era tutta fresca e liscia. Rivestita di un abito di lino bianco, fu portata in processione per le vie del paese con la bara aperta e acclamata santa dal popolo. Nel 2003, a 50 anni dalla morte, fu traslata dalla cappella delle Suore Riparatrici del cimitero nella chiesa parrocchiale di Sant’Andrea, distante in linea d’aria pochi metri dalla sua abitazione che oggi, restaurata dopo un lungo abbandono, appare come una linda casetta dove molti vanno a pregare. Il numero di grazie ottenute, le testimonianze dei fedeli d’Italia e d’America è impressionante. La Monachella non mette soggezione, ci si rivolge a lei come a una persona di famiglia, consola e dà coraggio oggi come faceva da viva. Molti sono i segni rilevati come: bilocazione, profumo di rose o gelsomino, aiuto in situazioni difficili, guarigioni miracolose. La vita di Mariantonia appare come un caso raro nel panorama dei santi cristiani se pensiamo ai sessanta anni ininterrotti della sua immobile degenza. La Monachella non poteva fare altro che dire poche parole in dialetto, pregare e a volte assentarsi in estasi. Ciò testimonia che la fede e l’amore sono capaci di trasformare una condizione umanamente disperata in una fonte inesauribile di grazia e conforto.
Non aveva nessuna piaga di decubito, la sua pelle era tutta fresca e liscia. Rivestita di un abito di lino bianco, fu portata in processione per le vie del paese con la bara aperta e acclamata santa dal popolo. Nel 2003, a 50 anni dalla morte, fu traslata dalla cappella delle Suore Riparatrici del cimitero nella chiesa parrocchiale di Sant’Andrea, distante in linea d’aria pochi metri dalla sua abitazione che oggi, restaurata dopo un lungo abbandono, appare come una linda casetta dove molti vanno a pregare. Il numero di grazie ottenute, le testimonianze dei fedeli d’Italia e d’America è impressionante. La Monachella non mette soggezione, ci si rivolge a lei come a una persona di famiglia, consola e dà coraggio oggi come faceva da viva. Molti sono i segni rilevati come: bilocazione, profumo di rose o gelsomino, aiuto in situazioni difficili, guarigioni miracolose. La vita di Mariantonia appare come un caso raro nel panorama dei santi cristiani se pensiamo ai sessanta anni ininterrotti della sua immobile degenza. La Monachella non poteva fare altro che dire poche parole in dialetto, pregare e a volte assentarsi in estasi. Ciò testimonia che la fede e l’amore sono capaci di trasformare una condizione umanamente disperata in una fonte inesauribile di grazia e conforto.
Nel
2007 l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace, monsignor Antonio Ciliberti, ha
ufficialmente aperto l’inchiesta diocesana per la canonizzazione della Monachella,
costituendo l’apposito tribunale ecclesiastico, che dispone già di una vasta
documentazione di testimonianze sull’eroicità delle sue virtù, sulla fama di
santità e sulle grazie ricevute dai fedeli.
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